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La Vita di San Giuseppe della Serva di Dio Cecilia Baij O.S.B. (versione audio e testo) - audiolibro mp3 online

Libro III – (6) Capitolo VI – Come san Giuseppe partì dall’Egitto con la sua Santa Sposa e il Fanciullo Gesù; ciò che gli capitò nel viaggio; le virtù che san Giuseppe praticò e quanto patì.

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Libro III – (6) Capitolo VI – Come san Giuseppe partì dall’Egitto con la sua Santa Sposa e il Fanciullo Gesù; ciò che gli capitò nel viaggio; le virtù che san Giuseppe praticò e quanto patì.

I nostri santi personaggi, ricevuta la benedizione del divin Padre,
partirono la mattina per tempo, essendosi già il giorno precedente licenziati
da tutti i loro amici. Il nostro Giuseppe uscì di casa con la sua Santa Sposa e
il divino Fanciullo, tenendolo in mezzo a loro.
Avevano dimorato in Egitto circa sei/sette anni.
Era cosa grandemente meravigliosa vedere con quanta cautela il nostro
Giuseppe conduceva i due grandi personaggi, Gesù e Maria! Tutto diligente
e amoroso, con un godimento che gli si vedeva brillare anche sul volto.
Quantunque fosse di buon mattino, ugualmente furono incontrati
da alcuni Egiziani, [che restarono] ammirati della rara bellezza
della Madre e del Figlio.

Dicevano beato Giuseppe, perché aveva conseguito una tale Sposa ed
un tale Figlio, e molto più chiamavano beata e fortunata la Madre, che
l’aveva partorito. Godeva il nostro Giuseppe nel sentire lodare la Madre
ed il Figlio, e ringraziava il suo Dio della grazia che gli aveva fatto, eleggendolo
per padre putativo del suo Unigenito.
Usciti felicemente dall’Egitto, lodavano insieme il divin Padre. Il
nostro Giuseppe teneva fissi gli occhi ora alla sua Sposa, ora al suo Gesù,
accomodandosi ai loro passi. Era ammirata questa santa compagnia perfino
dagli spiriti angelici, che le facevano corte.
L’aria era assai chiara e bella e pareva che tutti gli elementi esultassero
e facessero festa con il loro modo di reagire, e le creature tutte si rallegrassero
alla vista del loro Creatore. Gli uccelli l’accompagnavano con armoniosi
canti, ed il nostro Giuseppe tutto osservava: per il contento che il
suo cuore provava, non poteva trattenere le lacrime.
Andava il divino Fanciullo facendo quegli atti interni che già nella
sua Vita sono registrati, e la divina Madre, che il tutto penetrava, gli faceva
compagnia e andava anche insinuando qualche cosa al suo Giuseppe, perché
anch’egli si unisse con gli atti interni; ed il Santo tutto praticava con
grande amore e con molto gusto del suo spirito.
[Dopo aver] camminato per qualche tempo, il nostro Giuseppe – tutto
sollecito che il suo Gesù e la divina Madre si riposassero – si fermava, e
come capo di famiglia ordinava che si riposassero alquanto, il che senza replica
veniva obbedito dalla Madre e dal Figlio, ponendosi a sedere in qualche
luogo adatto; e quivi si trattenevano.
Sentiva il divino Fanciullo la stanchezza, come gli altri figliuoli, e si
vedeva affannato; di questo ne sentiva dispiacere il nostro Giuseppe , e lo
pregava di ottener grazia dal divin Padre che tutta la stanchezza la sentisse
lui solo, e gli diceva: «O mio caro e amato Figlio! Dite al divin Padre che
faccia sentire a me solo tutto il patimento e la stanchezza, perché io sono
peccatore. A me si deve il patire, e non a Voi ed alla vostra divina Madre,
che siete innocenti e santi».
Gli rispondeva con molta grazia il divino Fanciullo, e gli diceva che
Lui era sceso dal cielo in terra per patire, e che pativa molto volentieri per
adempiere la volontà del Padre e per la salvezza del genere umano.
Poi gli narrava il gusto che sentiva nel patire, con tanta grazia che sia
il Santo, che la divina Madre, si accendevano nell’amore al patire in modo
tale che tutto ciò che pativano sembrava loro molto poco. Così, riposati alquanto,
ripigliavano il loro viaggio, e quando il divino Fanciullo si avvedeva
che il suo Giuseppe era stanco, incominciava a narrargli le perfezioni del suo
Padre celeste. Di ciò il Santo ne sentiva tanto gusto, come anche la divina
Madre, e non sentivano più il travaglio della stanchezza, ma camminavano
tutti assorti, godendo una consolazione inenarrabile nel loro spirito, di modo
che facevano un lungo tratto di strada senza neppure avvedersene.
Non conosceva poi il nostro Giuseppe la strada che conduceva a Nazaret;
con tutto ciò non domandò né cercò mai aiuto da nessuno, sicurissimo
che – andando con Gesù – non avrebbe sbagliato il cammino. E difatti il divino
Fanciullo li guidava per il diritto sentiero. A volte si fermavano, e il
divino Fanciullo faceva loro ammirare la grandezza della campagna e la vastità
del cielo, e poi diceva: «Osservate l’ordine di tutte le cose e la sapienza
con cui il mio Padre celeste le ha create».
E incominciava a parlare loro della sapienza divina, con tanta grazia
ed eloquenza che, tanto il nostro Giuseppe come la divina Madre, andavano
in estasi e così si trattenevano per qualche tempo. Allora il divino Fanciullo
si tratteneva a pregare il Padre e lo supplicava per la salvezza del genere
umano. Tornati poi dall’estasi, seguitavano il loro viaggio, tutti consolati e
ricolmi di giubilo ed allegrezza.
Passarono digiuni tutto quel giorno i nostri santi pellegrini, senza altro
cibo che la divina consolazione che sperimentavano nelle loro anime e la
presenza gioconda dell’amato loro Gesù, che li saziava. Sentiva però grande
pena il nostro Giuseppe per il suo Gesù che, essendo di età tenera, aveva necessità
di cibarsi. Ma Gesù gli faceva animo e gli diceva: «Mio caro Giuseppe,
non vi affiggete, ci ristoreremo questa sera [tutti] assieme nell’albergo
dove arriveremo. Non vi affiggete per il mio patimento, perché debbo incominciare
presto a patire e devo patire molto in futuro. Perciò non vi crucciate
per tanto poco, anzi ringraziate con me il divin Padre, che mi dà occasione
da soffrire qualche poco, onde io posso mostrarGli l’amore che porto a Lui
ed al genere umano».
Essendo già l’ora tarda, incominciarono i nostri pellegrini a vedere
[da lontano] il luogo dove dovevano arrivare per trattenersi la notte a prendere
qualche riposo. E il nostro Giuseppe ne intese tanta consolazione, non tanto
per sé, quanto per il suo Gesù e per l’amata sua Sposa. Affrettarono i passi
per potere arrivare per tempo: sentiva però per questo molta pena il nostro
Giuseppe, per il timore che il suo Gesù e la sua sposa patissero. Ma era necessario
affrettare il cammino, perché la notte non sopraggiungesse prima di
arrivare. Infatti, al nostro Giuseppe con tutte le consolazioni inesplicabili che
provava, non mancarono però mai delle afflizioni, per i patimenti del suo caro
Gesù e dell’amata sua Sposa.

Arrivati a sera, i santi pellegrini furono alloggiati, ed il loro ristoro
fu di pane ed acqua con poche erbe e frutti di cui si cibarono. [Poi] si ritirarono
in una stanza: [infatti,] quantunque la bellezza e modestia della divina
Madre e del Fanciullo Gesù fosse ammirata dagli albergatori con stupore,
non vi fu tuttavia chi dicesse loro cosa alcuna, permettendo Dio che fossero
lasciati in loro libertà; così passarono quella notte, in parte recitando le divine
lodi, in parte riposandosi, e in parte pregando.
La mattina per tempo, adorato insieme il divin Padre e fatti i loro soliti
esercizi delle orazioni, partirono. Continuando il loro viaggio non mancarono
alcuni che li osservassero, chiamando fortunato Giuseppe che si ritrovava
una così degna Sposa ed un figlio tale, che rapiva il cuore a chi lo guardava,
tanta era la sua grazia e bellezza. Di ciò godeva il nostro Giuseppe, e
ne rendeva grazie al suo Dio, riconoscendo sempre più il beneficio che aveva
ricevuto.
A volte poi, quando erano stanchi, l’amato Gesù prendeva per le
mani il suo Giuseppe e la divina sua Madre, e standosene in mezzo a loro,
così camminava. Pareva allora, tanto a san Giuseppe come alla divina Madre,
di essere portati: non sentivano fatica né stanchezza nel camminare, ed il
nostro Giuseppe, rivolto al suo amato Gesù, gli diceva: «O caro e amato mio
figlio, Voi alleggerite il mio travaglio e fate che io non senta stanchezza, ma
consolazione. Ma a Voi, chi vi toglie la pena che sentite nel camminare, tanto
più che siete in così tenera età?!».
Allora l’amato Gesù gli rispondeva con molta grazia, e gli diceva:
«L’amore fa che io non senta stanchezza.
Questo mi addolcisce ogni amarezza, questo mi fa sostenere tutto
con allegrezza e mi fa camminare speditamente». Allora il nostro Giuseppe
esclamava: «Oh, amore! Vieni in me, accendi anche il mio cuore!». E nel dire
così, andava in estasi; e così si fermavano alquanto, e poi, con più generosità,
continuavano il loro viaggio.
Al sentire nominare l’amore, si accendeva tanto il nostro Giuseppe
che pareva che nel suo cuore vi fosse un incendio, come infatti vi era; e ne
andava in estasi per la dolcezza di questa parola: amore.
Perciò il suo Gesù spesso gliene parlava, ed alle volte – parlandogli
dell’amore grande che il divin Padre portava al genere umano, avendo mandato
il suo Unigenito per redimerlo -, conveniva che finisse di parlarne,
perché Giuseppe si struggeva, e non poteva resistere alla violenza dell’amore
che provava, consumandolo quel beato incendio che nel cuore gli ardeva; e
le parole di Gesù erano come mantice che accendevano sempre più quel celeste
fuoco. [Dopo aver] camminato per un pezzo, i nostri pellegrini si riposarono
alquanto, bisognosi di qualche ristoro, e non essendovi cosa alcuna in
quelle campagne, vennero degli uccelletti e portarono nel becco dei frutti,
posandoli in seno a Gesù: con essi si ristorarono [tutti] insieme, rendendo
affettuose grazie al divin Padre, che tanto mirabilmente li ristorava e provvedeva
alla loro necessità per mezzo delle sue creature irragionevoli. Essendosi
cibati con quei frutti, il graziosissimo Gesù fece loro un discorso sopra
la divina provvidenza, e con le sue parole imprimeva sempre più la fiducia
nel cuore del nostro Giuseppe e la gratitudine verso il divin Padre.
Altre volte venivano altri animaletti cantando, ed alcuni portavano
rami di fiori nel becco e li facevano cadere sopra il divino Fanciullo; ed il
nostro Giuseppe tutto osservava con grande attenzione e conservava nel suo
petto, ripensandovi poi e lodandone il suo Dio per le meraviglie che operava
per mezzo degli animali in onore del suo diletto Figlio.
Altre volte, mentre si riposavano venivano delle colombe con rami
di olivo, e li posavano in seno a Gesù, alla divina Madre ed anche a Giuseppe;
e quegli animaletti facevano loro festa, dimostrando giubilo ed allegrezza,
dibattendo le ali e saltellando. Di ciò i nostri pellegrini prendevano gusto,
osservandoli e godendo che gli animali irragionevoli facessero festa
aH’Unigenito del divin Padre. In questo viaggio, come si dirà, anche gli animali
e le bestie più selvagge non mancarono di venire a ossequiare il loro
Creatore; della cosa restava molto attonito il nostro Giuseppe.
I santi pellegrini continuavano il loro viaggio e capitò loro molte
volte di stare anche la notte in mezzo alla campagna, non essendovi in quei
luoghi deserti e desolati alcun luogo dove ripararsi. Allora il nostro Giuseppe
era tutto mesto ed afflitto, vedendo il suo caro Gesù e la sua amata Sposa in
mezzo alla campagna all’addiaccio; perciò si ingegnava di aggiustare il suo
mantello in modo che coprisse tutti e tre a guisa di capanna. Lo faceva il
Santo con tanta arte e ingegno che pareva appunto una piccola capanna, ed
ivi se ne stavano la notte, con tanta allegrezza del divino Fanciullo e della
santa Madre, perché godevano di vedersi in tanta povertà. Ma il nostro Giuseppe
era ferito da acuto dolore al vedere i patimenti della Madre e del Figlio,
e per non poter soccorrere a tanta povertà ed a tanto bisogno.
Altre volte venivano gli Angeli e portavano il cibo necessario; di ciò
il nostro Giuseppe rendeva affettuose grazie al suo Dio. Quando si trovava in
grande necessità, rivolto al divin Padre Lo supplicava di provvederli, dicendoGli
che non guardasse la sua indegnità, ma alla necessità del suo Unigenito
Figlio e della divina Madre. Non tardava molto Dio a provvederli, ora in
un modo, ora in un altro.
Alcune volte [invece] volendo provare il suo servo fedele, Dio tardò
a provvederli; e il divino Fanciullo diceva al suo Giuseppe: «Padre mio, io
avverto il bisogno di qualche ristoro, poiché sento fame e sete».

Ferivano il cuore di Giuseppe queste parole, e si poneva a piangere
con le mani giunte verso il cielo, invocando la divina provvidenza. E poi, rivolto
al suo amato Figlio, gli diceva: «O Figlio mio amato, come potrei fare
io per soccorrere al vostro bisogno?! lo mi sento struggere per non avere
modo di soccorrervi. Pregate il vostro divin Padre che si degni inviarvi il vitto
necessario, quanto basti per Voi e per la vostra santa Madre.
Per me, non meritandolo, ne soffrirò volentieri la mancanza». E il divino
Fanciullo, a guisa degli altri fanciulli, si stringeva nelle spalle e mostrava segni
di grande bisogno. Il Santo si poneva genuflesso in terra, e con molte lacrime
pregava il suo Dio di soccorrere il suo amato Gesù in quella necessità.
Il divin Padre, dopo avere provato la pazienza e sofferenza del suo
servo, lo provvedeva largamente [di beni], tanto per il suo Unigenito che per
la divina Madre e per il suo fedelissimo servo; e ciò faceva per mano di angeli.
L’afflittissimo Giuseppe restava consolato, rendendo copiose grazie al
suo Dio per la provvidenza inviatagli, e supplicava la sua Santa Sposa di volere
cantare qualche lode alla divina Provvidenza.
Ella lo faceva con grande gusto del suo Gesù e consolazione di Giuseppe,
che per la gioia andava in estasi. Il nostro Giuseppe soffri anche delle
amarezze in questo viaggio perché, quando il divino Fanciullo trattava con il
suo divin Padre, si vedeva tutto mesto e angustiato. Allora sì che il nostro
Giuseppe si amareggiava! Non aveva ardire di domandare al suo Gesù che
cosa avesse e per quale motivo stesse così afflitto. Al più che si estendessero
le sue richieste, gli domandava se, per caso, si sentisse male.
Ma il divino Fanciullo gli accennava di no. Qui sì che smaniava
l’afflitto Giuseppe, e diceva dentro di sé: «O mio caro Gesù, che cosa avete
Voi che vi turba?! O caro figlio, o figlio innocente! Voi in afflizione, Voi
che siete l’Unigenito del Padre, la consolazione di tutto il Paradiso, il sollievo
delle nostre anime! E come potrà soffrire il mio cuore al vedervi in afflizione?!
Forse io ho mancato in qualche cosa, forse ti avrò disgustato». E così
si amareggiava maggiormente l’afflitto Giuseppe, tanto più che il divino
Fanciullo non gli diceva cosa alcuna. Seguitando il viaggio [e permanendo]
la sua afflizione, [Giuseppe] volgeva gli occhi verso la divina Madre, e vedeva
che anche lei era mesta, facendo compagnia al suo divin Figlio.
Allora il Santo tanto faceva che con i cenni faceva capire alla divina
Madre la sua afflizione, e lei lo consolava dicendogli brevemente come il
Fanciullo Gesù stesse trattando con il suo divin Padre, affliggendosi delle
offese che riceveva dal mondo. Così restava alquanto quieto l’afflitto Giuseppe.
Ad ogni minimo cenno che gli faceva la divina Madre restava convinto,
perché [ella] intendeva perfettamente, ed egli era [da lei] bene informato.
Poi rassicurato sul fatto che il suo Gesù non si affliggeva per causa sua, si
quietava e diminuiva la sua pena, benché tanto sentisse l’amarezza nel vederlo
con quella afflizione.

Anche lui allora rifletteva sulle molte offese che il suo Dio riceveva
dal mondo, e si crucciava versando amarissime lacrime, e non si quietava sin
tanto che non vedeva rassegnato il suo Gesù, il quale lo consolava, dicendogli:
« Mio carissimo Padre, non vi affliggete soverchiamente quando mi vedete
afflitto; ciò vi apporti ammirazione, perché voi già sapete come io sono
venuto al mondo per redimere il genere umano, ed essendo questo un affare
di tana importanza, ne tratto di continuo con il mio divin Padre.
Io so quanto il mio Padre celeste ami il mondo, e vedo la ricompensa
che al presente riceve dal mondo ingrato, e quella ancora che riceverà per
l’avvenire, onde non posso fare a meno di non sentirne tutta l’amarezza.
Se mi vedete afflitto, non temete che ciò sia per voi, perché vi assicuro
che voi mi servite di consolazione e non di afflizione».
A queste parole si prostrava in terra il nostro Giuseppe e versava lacrime,
dicendogli: «Compatite e perdonate il vostro servo, perché è tanta la
pena che sento nel vedervi afflitto e mesto, che mi sento trapassare l’anima,
e non posso fare a meno di sentirla, perché – essendo Voi ogni mio sollievo
ed allegrezza -, se state Voi afflitto, io di certo non posso vivere consolato».
Ed esprimeva molte considerazioni piene di affetto, spiegando al suo
Gesù l’amore grande che gli portava e pregandolo di fare sentire solo al cuore
suo tutta quell’amarezza che Lui sentiva: infatti, sarebbe stato più contento
se egli solo avesse avuto a soffrire tutte le pene, purché non le sentisse il
suo Gesù, poiché l’amava più di se stesso, anzi, tutto il suo amore aveva posto
in Lui.

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