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La Vita di San Giuseppe della Serva di Dio Cecilia Baij O.S.B. (versione audio e testo) - audiolibro mp3 online

Libro III – (9) Capitolo IX – San Giuseppe con la divina Madre ed il fanciullo Gesù arrivarono a Betlemme; e ciò che lì gli capitò

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Libro III – (9) Capitolo IX – San Giuseppe con la divina Madre ed il fanciullo Gesù arrivarono a Betlemme; e ciò che lì gli capitò

Arrivati a Betlemme, i nostri santi Pellegrini andarono alla grotta
dove era nato il Salvatore del mondo. Furono mirabili gli effetti che il nostro
Giuseppe sperimentò nelFentrarvi. Si sentì riempire di un’allegrezza più che
grande, di una consolazione inenarrabile ed insieme di un santo timore e riverenza,
in modo che restò estatico per qualche tempo, e dopo si prostrò in
terra ad adorare e baciare quel luogo dove si posò il Redentore appena nato,
ed ivi versò copiose lacrime di tenerezza. Baciava e ribaciava quella terra
fortunata, che fu la prima ad accogliere il nato Messia, e si commosse il suo
cuore in sacri affetti.
Il nostro Giuseppe ebbe in quel tempo un’estasi assai sublime, dove
restò confortato il suo spirito ed illuminato, essendogli stati da Dio rivelati
altissimi misteri. Ritornato dall’estasi, apparve con il volto tutto luminoso e
pieno di giubilo, incominciò a lodare il suo Dio rendendogli affettuose grazie
perché si vedeva tanto favorito e beneficato. Osservò la divina Madre – anche
lei era tutta assorta – e il divino Fanciullo, che pregava il divin Padre:
tutto ridondava a godimento del nostro Giuseppe. Terminate tutte le adorazioni
ed orazioni, si trovarono i nostri pellegrini tutti consolati e rifocillati,
parendo loro di essersi lautamente cibati. [Infatti] in tale circostanza voleva
il Padre celeste nutrire [così] anche nel corpo i nostri stanchi pellegrini, che
– essendo l’ora tarda – non avevano modo di andare in città per provvedere
il vitto necessario.
Il Santo, così nutrito [nell’estasi], temeva che ciò non fosse stato lo
stesso per la sua Sposa e il Fanciullo Gesù. Perciò domandò se doveva andare
in città per trovare qualche cosa [da mangiare], perché anch’essi si cibassero,
ma si sentì [rispondere] che anch’essi si sentivano sazi: così insieme ne
resero grazie a Dio con grande affetto e tenerezza.
Si umiliava sempre più il nostro Giuseppe, dicendo al suo Gesù ed
alla sua Sposa: «Mia grande confusione è il vedermi dal nostro Dio tanto beneficato!
Che si degni dispensare queste grazie a Voi, mio Gesù, ed alla vostra
Santa Madre non è grande cosa, essendo Voi i grandi personaggi che
siete: ma a me, che sono un vilissimo schiavo, questo sì che è grande cosa!
I0 non merito né posso mai meritare grazie così grandi: perciò sono certo che
Il divin Padre per riguardo vostro si degna di tanto beneficarmi».
A queste parole il divino Fanciullo gli fece un discorso sopra la
provvidenza e la liberalità del suo divin Padre; perciò restarono di nuovo assorti,
tanto il nostro Giuseppe che la divina Madre, perché tanta era la grazia
e la sapienza, con cui il divino Fanciullo parlava, che rapiva i cuori di chi
l’udiva e faceva restare estatiche le loro menti. Perciò esclamava il nostro
Giuseppe: «Gesù, mio caro figlio e Signore! Chi non resterà ferito dal vostro
amore all’udire le vostre divine parole?! Non è possibile che, udendo le vostre
parole divine, non si arrendano tutti i cuori, anche se duri! Troppo efficaci
sono le vostre parole! Penetrano nell’intimo dell’anima e feriscono il
cuore. Spero che tutti i cuori resteranno preda del vostro amore e che acquisterete
tutte le anime, [che si sono] perdute dietro al [male per] colpa!».
A queste parole si mostrava mesto il divino Fanciullo, sapendo benissimo
quanto grande sarebbe stata la durezza e perfidia dei cuori, i quali
avrebbero avuto sì la sorte di udire le Sue divine parole, ma gli avrebbero
fatta dura resistenza ,e sarebbero restati più che mai induriti.
I nostri santi pellegrini passarono quella notte in parte lodando il divin
Padre, in parte in sacri colloqui, in parte pregando e in parte prendendo
qualche riposo. Il nostro Giuseppe stava presso la mangiatoia, dove tante
volte il suo Gesù si era riposato e non sapeva da quella allontanarsi; ed ivi
versava lacrime di tenerezza.
La divina Madre si tratteneva in quel luogo stesso e su quella terra
dove aveva dato alla luce il suo Santissimo Figlio, rinnovandosi in lei le
gioie e le consolazioni che aveva sperimentato nell’atto stesso di darlo alla
luce. Il divino Fanciullo le stava appresso pregando il Padre e facendo i suoi
soliti atti di offerta e petizioni a favore del genere umano. I cori angelici, che
gli facevano corte, cantavano di nuovo dolcemente il Gloria in excelsis
Deo. Così in quella notte si rinnovarono le allegrezze della natività del
Redentore ed il nostro Giuseppe ne godette molto.
Arrivata la mattina, recitarono insieme le divine lodi, come già erano
soliti; poi il nostro Giuseppe andò in città a cercare qualche cosa con cui potersi
cibare, per poi partire alla volta di Nazaret.
Stentò molto a trovare un po’di pane per potersi cibare con la divina
Madre ed il Fanciullo Gesù. Si cibarono in grande povertà di solo pane ed
acqua, non avendo trovato altro. Il nostro Giuseppe si affliggeva per questo,
perché temeva che il suo Gesù e la sua Santa Sposa patissero. Ma essi lo
consolavano, mostrando allegrezza di quel poco che aveva trovato e godevano
di trovarsi in tanta povertà. Fatte di nuovo le adorazioni in quel santo luogo,
si cibarono a sufficienza di ciò che si è detto, e poi partirono alla volta di
Nazaret.
Il nostro Giuseppe non poteva fare a meno di meravigliarsi
dell’ingratitudine di quelli di Betlemme, e se ne lamentava con il suo Gesù,
cioè della poco buona volontà che aveva trovato presso i suoi, e della loro
ingratitudine. Lo consolava però il divino Fanciullo, e lo esortava a soffrire
con allegrezza tutto ciò che il divin Padre permetteva, perché si esercitasse
nella pratica delle virtù, e specialmente nella pazienza e rassegnazione nella
mancanza di ciò che era necessario per mantenersi in vita, come il cibo quotidiano;
e gli ricordava le grazie che sempre avevano sperimentate [da parte]
della divina provvidenza.
Si riprendeva subito il nostro Giuseppe, e diceva al suo Gesù che lo
compatisse, perché il suo cuore non poteva rassegnarsi a soffrire
l’ingratitudine che usavano le creature verso di Lui e della sua Santa Madre;
e gli diceva: «Voi sapete, Gesù mio, quanto sia grande il desiderio che ho
che Voi siate da tutti conosciuto e amato, e che tutte le creature vi si mostrino
grate! Vedere che fanno tutto il contrario mi è di un sommo dispiacere».
Allora il suo Gesù gli diceva: «Sappiate, mio carissimo padre, che
ciò sin ora ho sofferto è molto poco a paragone di ciò che mi sta preparato,
ed io tutto abbraccio con allegrezza per adempiere la volontà del mio divin
Padre e per l’amore che porto a tutto il genere umano. E così voi dovete imitarmi
in questo e soffrire con allegrezza tutto ciò che porta tristezza alla vostra
umanità». Queste parole ferivano il cuore del nostro Giuseppe e tra le
consolazioni sempre veniva ferito dalla spada del dolore, quando sentiva
come il suo Gesù doveva soffrire molto.
Questo sì che gli trafiggeva l’anima e gli amareggiava tutte le sue
consolazioni, perché amava il suo Gesù con un amore intensissimo; e pensare
che Egli doveva patire molto era, per l’amante Giuseppe, un dolore fierissimo,
che gli lacerava il cuore e gli trapassava l’anima.
Si faceva vedere tutto afflitto, mesto e dolente, né si poteva rasserenare
sin tanto che il suo Gesù, con le sue divine parole, non lo consolava ed
animava ad uniformarsi alla volontà del divin Padre, alla quale il nostro Giuseppe
prontamente si sottometteva; e quando sentiva dire: “volontà di Dio”,
chinava profondamente la testa in segno che a quella prontamente si assoggettava.
In questo viaggio da Betlemme a Nazaret, il nostro Giuseppe fu spettatore
di grandi meraviglie, perché, avvicinandosi il Salvatore del mondo alla
sua patria, gli vennero incontro tutti gli animali, dal momento che non facevano
ciò gli uomini. Si vedevano venire a schiere gli uccelletti di ogni sorta a
fare festa e [cinguettare] armonie al loro Creatore, mostrando un giubilo e un
contento incomparabile, saltando e dibattendo le ali. Anche le bestie selvagge
vennero, saltando tutte festose a fare riverenza al loro Creatore.
Tutto ammirava con stupore il nostro Giuseppe, e di ciò molto si rallegrava.
L’aria stessa pareva che mostrasse giubilo ed allegrezza; perciò il
nostro Santo, tutto contento, diceva al suo Gesù: «O mio caro e amato Figlio,
come si rallegra ogni creatura al vostro ritorno a Nazaret! Anche le piante
stesse mostrano, a modo loro, d’intendere giubilo ed allegrezza! Anche il
mio cuore ne gode molto. Se ciò fanno le creature prive di ragione, che faranno
poi le creature ragionevoli?! E quanto si rallegreranno i nostri paesani
al vostro arrivo! Quando poi vi vedranno tanto caro, tanto bello, tanto amabile
e grazioso, come si riempiranno di giubilo ed allegrezza i loro cuori! A me
ogni ora mi sembrano mille, [nell’attesa] di arrivare e portare a tutti consolazione
ed allegrezza».
Tutto ciò facevano dire al nostro Giuseppe l’amore e il desiderio che
aveva che il suo Gesù fosse conosciuto ed amato, e l’amore che portava ai
suoi prossimi, bramando che tutti gustassero di quella consolazione che egli
gustava nel trattare con il suo Gesù. Infatti, mentre il divino Fanciullo si avvicinava
a Nazaret, gli abitanti del paese intesero un’insolita allegrezza di
cuore, non sapendo però donde provenisse. Non vi diedero però molta attenzione
per allora, benché poi vi furono alcuni che rifletterono; e furono le
amiche della divina Madre e le sue vicine, gente molto timorata di Dio ed
osservante della Legge. Poi, vedendo la santa Madre con il divino Fanciullo,
capirono che dalla loro venuta procedeva la consolazione da esse sperimentata.
Il nostri santi pellegrini proseguivano il loro viaggio con molta consolazione
ed allegrezza perché erano vicini alla patria. Ogni tanto si riposavano,
perché erano già stanchi per il lungo e impervio viaggio, ed in queste
tappe che facevano, godevano dei favori del cielo; ed il nostro Giuseppe andava
per lo più in estasi. Era solito, nelle tappe che faceva, alzare gli occhi al
cielo, e restava assorto nella considerazione degli eterni godimenti e delle
grandezze del suo Dio.
Sin da fanciullo il nostro Giuseppe ebbe come consuetudine di mirare
il cielo ed ivi deliziarsi, contemplando il suo Dio ed i godimenti di quella
patria beata; e questo continuò a fare anche per tutto il corso della sua vita,
trovando una somma consolazione nel mirare il cielo, sapendo che ivi risiedeva
l’amato suo Dio. E diceva spesso al suo Gesù: «Mio caro figlio! Quantunque
io abbia la bella sorte di trattare con Voi, di godere della Vostra amabilissima
presenza e contemplare in Voi la Divinità, con tutto ciò sperimento
una consolazione grandissima nel mirare il cielo, ed il mio cuore si riempie
di giubilo». Il suo Gesù gli rispondeva con tanta grazia: «Ciò non vi deve
meravigliare, perchè ivi abita il divin Padre sul trono della sua maestà, ed ivi
sta a voi preparato un luogo assai eminente, dove per tutta un eternità godrete
e vedrete il divin Padre a faccia svelata. Vedrete le increate bellezze e godrete
gli immensi tesori della Divinità».
A queste parole esultava il nostro Giuseppe, e ricolmo di giubilo
esclamava: «Oh, Paradiso! Quando arriverà per me quell’ora bramata, nella
quale sarò fatto degno di entrarvi, e godere il mio Dio a faccia svelata?! Mio
Dio, mio Dio!». Dicendo ciò andava in estasi, e il divino Fanciullo godeva
molto di vedere il suo caro Giuseppe tanto bramoso di andare a godere a faccia
svelata il suo Dio. E bramava che arrivasse presto il tempo di compiere
l’opera dell’umana Redenzione – cioè della sua penosissima Passione e Morte
– perché, aprendosi le porte eterni, potessero essere introdotte le anime
agli eterni gaudi del Paradiso.

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